Ottavo Campale
O.C.4
Passa ancora lo scaglione,
ed il nuovo primo,
in primo d’anno,
sopraggiunge nel rottame.
E’ tardi alla venuta,
ed il buio può nasconder
le fattezze e la bruttura.
Ma non cela,
e mai potrebbe,
l’odore del deluso
che scottante ci attanaglia.
Ed io per primo, Decimo fottuto,
mi arrovento dei vapori
scagliandomi contrario
al muro del dissenso.
Sopportar non e’ canzone,
non facile,
non bello,
ed il lume che mi ispira
adesso tace rivoltoso.
Prepara, che io sappia,
un rigurgito colposo,
il fragile destino
di un romantico incantato.
Si muove il baco nella seta,
costruisce e pur non pare;
io, in silenzio,
Decimo fottuto,
mi incateno.
Attendo.
Sarà, per poi,
il contento del goloso
o la gloria del buon duce.
Verrà a schiuder queste maglie,
l’onda forestiera del rispetto.
Manca invece all’attenzione,
come manca tutto ciò
che uno s’aspetta,
se nel Decimo non vive l’intenzione.
E deluder non s’appropria
che del resto,
l’uman tradotto in misero miscuglio,
in sperpero di ossa e pelle e peli.
Dov’e’? Chi fu? Che cosa?!
Che senso ha il chiedere o il tentare.
Ubbidisci, ultimo mensale!
Nell’ombra poi dispersa e frastornata
giunge il timbro circolo
di un natale ricordato,
impresso a pelle e a inchiostro
in rispettive situazioni.
“Caro Luca”.
Mi domando: Luca.
E’ d’amor che giunge
lieta
la notizia,
perchè solo non avessi
che sentire.
Non m’accorgo
il piacer che può portare
un foglio e un bianco,
banale fino al punto
d’esser bianco
anche un incarto, un rotolo,
un vuoto consumato di Marlboro.
Ma accorgo fino al fondo
del dolor che non tramuta,
se nel bianco non si scorge
il propriar della natura.
Profondo dolore.
Lacrime di quel che ancor
mi dorme accanto,
distrutto per un color di cellulosa.
Profondo dolore.
S’apre davanti
e fiero ti matura,
il valore scritto in carta
di un sorriso.