Ottavo Campale
O.C.12
Ed or rifletto,
in pieno ardor di giusta causa,
l’intenso calor che si sprigiona
dall’incontro d’altre risa,
più grandi di un cannon
che pure spara.
Il piazzale le coinvolge
di spettacolo ancestrale,
quasi l’uomo adesso appare
come semplice mistero
in mille nodi complicato.
Sia pazzo l’io che adesso ascolto,
pare un fatto non gradito,
fosse al Decimo non piaccia
alcun dei tali.
E’ allor quel riso
che cattura.
Quello strano convertir di rabbia
in grazia e pace pure.
Ed io, Decimo fottuto,
confondo a prima vista
il bisogno col destino;
novello e anonimo
mi lascio penetrare.
Godo,
dal ver che pare fiaba,
tramutato in giullar di mille corti
senza paga o alcuno scampo.
Rido per il fior che ancor racchiudo,
e rido per il male
che mi sgorga dalla gola,
a ripulir di duro inciso
il miscuglio dei miei sensi.
Strano partecipar attonito e cordiale.
Sento voci, canto,
un fresco persistere all’orecchio
e non dolere,
prudente,
senza e tuttavia
fornir assenso al mio domando.
Nel resto il Decimo confondo
per un attimo leggero,
trascurabile in misura
quanto meno per successo.
E’ lo scorrer del mio sangue.
Il borbottìo che dentro invade,
nuovo
in tale effetto.
Nel furor che mistico mi assale,
respirar
mi sembra un’intenzione.