Ottavo Campale
O.C.9
Cento giorni.
Il triste
è saper che niente cambia
ad ogni nuvola che passa.
S’è delineato il palinsesto,
la ragione dei corrotti malfattori.
Son uomini, si scopre.
Strani uomini.
Seggono su trampoli imbottiti,
ben puliti,
che al milite suggeriscono poltrone,
a vomitar di strani attrezzi
righe e curve in più colori.
Scrivono,
s’osa ponderare.
Firmano carte e incartamenti,
fogli, basse, ed altri documenti.
Il sole scorta quelle mani
ad ogni mossa;
nelle finestre
sempre infrange il raggio
persistente.
Uno ad ogni stella,
la misura.
A volte, dopo,
parlano ad infligger la distanza
che separa il tatuaggio dallo spirto.
E per disgrazia
fors’uno pensa e poi ribatte,
e lì, disgrazia,
giunge il pensier
che e’ detto molestare.
Osai, Decimo fottuto;
e tale fu il risposto.
Ebbi a dir
che ancor desideravo la ventura,
fuggir che sempre
e ancor sperai,
per dove il cuor non sa,
ma riesce a immaginare.
Volevo,
così come per natura d’uomo
ognuno attinge,
lasciare al dietro
i mattoni già pestati,
e viver d’ogni nuova brezza
pur lontana.
Miseria forse là,
lontano.
Guerra forse,
in peggior rima di un Attenti!
Morte
ancora
per sparire,
in tale mondo.
Diritto comunque,
il mio,
che pur non ebbi.
Decimo fottuto.
Per lor,
corrotti umani d’altri sensi,
soltanto assurdo corteggiar
novelle e fiabe d’altri tempi.
Già.
La moglie attende per la cena,
e poi il teatro, danze, e bridge in gruppo.
Già.
La figlia, il figlio, i figli.
Vorrebber
per ognun dei sottoposti,
tale fine
o almeno orgoglio.
Loro decisero a tal modo.
Tutti abbiano a mirare.
No.
Io, Decimo fottuto, no.
E non voller che cercassi.
Altra vita
par non mi sia grata.
Va bene.
Sì sia, se tale ormai
pare abbia ad esser.
Sì sia.
Ma la stirpe che delusa si prepara
la mattina
non è un sogno che compare
dall’onirico al pensiero.
Non è un fiero
quel che vedo succhiar dell’ostia
l’insipienza e il poco gusto.
Uomo in norma?
Forse,
tristezza in fatta di creatura.
Null’altro,
se non del sottoposto
mitigar le voglie ed i sapori.
Io, Decimo fottuto, no!